In seguito agli sconvolgimenti dovuti alla pandemia, il sistema dell’università e della ricerca italiano si è trovato di fronte alle contraddizioni e ai problemi di un decennio di definanziamento e precarizzazione. Le leggi di bilancio sono in ciò un passaggio cruciale: da esse dipendono anche il futuro dell’Università, della Ricerca e dell’Insegnamento, quantomai dilaniati da alti tassi di dispersione scolastica, crollo delle immatricolazioni e delle lauree, precariato e definanziamenti.
Da uno sguardo generale, la finanziaria 2023 appare quanto mai inadatta ad affrontare le difficoltà e le criticità che attanagliano il nostro Paese e non consentono il suo successivo avanzamento in termini tanto culturali e sociali, quanto economici: una legge di Bilancio aporofobica, che disegna i diritti come privilegi, incentivando la precarietà, favorendo l’evasione, tagliando su sanità e istruzione.
Solo due pagine sono dedicate al comparto dell’istruzione: negli interventi proposti si tenta di andare in un modello di istruzione antitetico ai bisogni della componente studentesca; si parla solo dell'incentivazione delle materie STEM a discapito di tutte le altre discipline, inno al paradigma della tecnica, esacerbazione del concetto di meritocrazia con conseguente allargamento della forbice delle disuguaglianze.
Dal punto di vista di diritto allo studio, si pagano ancora gli effetti di ormai un decennio fa insieme al riassestamento del sistema universitario tutto tramite la 240/2010, che lo ha condannato all’ormai completa aziendalizzazione: le famose “Disposizioni urgenti” (D.L. n. 180/2008) ridisegnarono la gerarchia delle istituzioni universitarie e ripartirono i fondi dell’FFO in funzione della qualità di offerta formativa e della ricerca ed in base all’efficienza ed efficacia delle sedi didattiche. Efficienza e qualità legate tuttavia a bisogni altri ed estranei alla formazione e alla didattica stessa: così l’università diviene un servizio e il diritto allo studio un beneficio escludente.
Sul versante ricerca, il riordino delle carriere della Legge n. 240 del 2010 (la c.d. “Legge Gelmini”) ha portato allo sfruttamento e, in seguito, all’espulsione sistematica di giovani ricercatrici e ricercatori dal sistema universitario italiano. Difatti, se l’RTDb è rimasto un porto sicuro a cui pochi hanno potuto approdare, l’RTDa, a maggior ragione negli ultimi anni a seguito di una serie di piani straordinari di reclutamento a valere ora sui fondi PON ora sui fondi PNRR, è diventata una posizione non solo e non tanto di fragile inquadramento, quanto dalle prospettive assolutamente vaghe e inconsistenti. Nondimeno, l’essenza più profonda del meccanismo di precarizzazione venutosi a determinare dalla combinazione tra la legge Gelmini e il consistente taglio dei finanziamenti al comparto università di quella stagione politica, si ha nella disciplina degli assegni di ricerca. Da fattispecie marginale nelle intenzioni del legislatore, negli ultimi dieci anni l’assegno di ricerca è divenuta la forma consueta di inquadramento del lavoro di ricerca post-dottorale. La natura temporanea e intermittente dell’assegno di ricerca, nonché la sua indegna retribuzione, ha serie conseguenze in termini di qualità della ricerca e, sovente, come portato immediato di tali condizioni di vita e di lavoro, di salute mentale.
La Legge di Bilancio 2023 non fa nulla per arginare questa impostazione, non destinando alcun finanziamento aggiuntivo all’istruzione terziaria e alla ricerca, anzi inasprendo i meccanismi punitivi e sperequativi nella distribuzione delle risorse. All’Università sono difatti dedicati solo tre commi su un articolo, il 101, deprimente e deplorevole rispetto a quelle che sono le condizioni ataviche in cui versa il sistema universitario italiano.
Il comma 1 conferma l’entrata in vigore un meccanismo introdotto nella legge di bilancio 2018 e finora rinviato di anno in anno, che pone un limite stretto al fabbisogno finanziario delle università, punendo gli Atenei che superino il limite (corrispondente alla spesa di 5 anni fa, aggiustata all’aumento del PIL) con un’ulteriore riduzione della quota del finanziamento ordinario a loro destinata. Questo meccanismo va a esacerbare le disuguaglianze tra Atenei, che si scaricano a loro volta, sia sulla didattica che sul precariato della ricerca: ricercatrici e ricercatori negli atenei del Meridione, soprattutto nei settori umanistici, subiscono le conseguenze più dure della Legge Gelmini, essendo costretti a una sequela di contratti atipici (a volte persino peggiori degli assegni di ricerca), con significativi periodi di disoccupazione tra un contratto e l’altro e scarse speranze di stabilizzazione.
Il fabbisogno finanziario, difatti, non è altro che un meccanismo perverso con cui, automaticamente, ogni anno vengono disposti limiti di spesa agli atenei al fine di ridurre la spesa. Tutto questo senza considerare le condizioni degli atenei e fissando lo stesso fabbisogno a livelli inferiori al FFO.
Andare, infatti, ad incidere sulla distribuzione delle risorse ordinarie, non farebbe che aumentare maggiormente il divario tra Atenei: facendo riferimento all’FFO, le complessive politiche di regolazione e finanziamento del sistema universitario, infatti, già tengono poco e male conto delle differenze e specificità territoriali (che vanno dai livelli di reddito, alle disponibilità dei servizi, alle immatricolazioni e al tasso di laureati), decretare un ulteriore penalizzazione economica in una fase in cui a mancare sono proprio i fondi ed i finanziamenti ordinari significa gravare su quegli Atenei che già versano in condizioni non ottimali.
Sulla questione fondi, inoltre, dalla legge n. 240/2010 i criteri di assegnazione delle risorse sono uno strumento ibrido che considera contemporaneamente i costi della didattica e i possibili fattori di svantaggio degli atenei, ma di questi ne tiene conto in misura inadeguata ed insufficiente: questi criteri, infatti, indirizzano i finanziamenti verso gli Atenei con la maggiore crescita di studenti iscritti e con la migliore qualità della didattica, definita tramite la quota premiale (verso cui Link si esprime contraria, data l’inadeguatezza di questa tipologia di definizione di destinazione fondi ad un ente pubblico che non dovrebbe essere messo in competizione al suo stesso interno), senza tuttavia quantificare il finanziamento minimo necessario per un adeguato funzionamento del sistema universitario.
Le politiche universitarie tengono dunque conto dei contesti nei quali gli atenei operano, ma in maniera opposta a quanto sarebbe auspicabile: penalizzano gli atenei collocati nelle aree più deboli.
Continuando, i perenni e decennali tagli non fanno che incentivare la penalizzazione del settore dell’istruzione terziaria, che quantomai avrebbe bisogno di investimenti strutturali e massivi. A causa di una ripartizione dei fondi che non tiene conto dei forti squilibri territoriali, dunque, se non si tien conto delle specificità e dei fattori di svantaggio che concorrono alla situazione dei singoli Atenei, so rischierà per aggravare lo status delle Università del Sud e delle Aree interne: legando difatti l’abbandono e la dispersione a fattori economici, sociali e di qualità dei servizi, se non si investe nel sostegno di queste aree, che maggiormente gioverebbero della presenza di centri culturali come solo le Università sanno essere, il rischio è di un collasso del sistema universitario e della chiusura di Atenei che determinerebbe la condanna definitiva per alcuni territori già di per loro bisognosi di cure.
Occorre dunque una ridefinizione totale del sistema di finanziamento del sistema universitario, che tenda ad una distribuzione delle risorse equa, proporzionata al fabbisogno non solo dell’Ateneo ma anche del territorio, per incentivare la crescita culturale e conseguentemente economica del Paese, per una didattica ed una ricerca libere e non competitive, fuori da una logica di premialità e da limiti di spesa totalmente inadatti.
Mancando, in sostanza, un incremento massivo dell’FFO, se ne consegue l’assenza di investimenti atti a garantire la gratuità dell’istruzione terziaria: nonostante i dati rivelino che sono sempre più le fasce benestanti a potersi permettere di sostenere gli studi universitari (ossimorico il potersi permettere se parliamo di un diritto) il nostro paese non si impegna a rimuovere le barriere economiche all’accesso all’istruzione terziaria. Come conferma il rapporto dell’OCSE Education at a glance 2022, infatti, nell’ultimo anno in Italia la percentuale di persone tra i 25 e i 64 anni con una laurea ha raggiunto il 20%, contro una media dei Paesi dell'OCSE del 41%. Se si cala nel dettaglio dei contesti territoriali in Italia, la percentuale dei laureati al Sud è più bassa rispetto a quella del Nord; drastico è stato anche il calo delle immatricolazioni nelle università negli ultimi due anni. L’innalzamento dei livelli di istruzione attraverso la generalizzazione dell’accesso all’università rappresenterebbe, dunque, un obiettivo strategico per tutto il paese: esso sarebbe raggiungibile con un investimento di 1,6 Miliardi annui di euro, secondo quanto calcolato da Link, meno di quanto l’aumento del bilancio alla difesa fatto in questa finanziaria che passa da 25,9 a 27,7 miliardi annui. Risulta chiaro come la questione non sia quindi di scarsità di risorse economiche ma piuttosto di scelte politiche deliberate che privilegiano la continua rincorsa agli armamenti piuttosto che la crescita culturale della società.
Inaccettabile è l’assenza di investimenti per sostenere la riforma del pre-ruolo, che consentirebbe, tramite il contratto di ricerca, di frenare la precarizzazione incessante delle figure della ricerca: sebbene imperfetta e con notevoli criticità, la riforma del pre-ruolo introdotta in sede di conversione del decreto legge n. 36 del 2022 rappresentava un primo passo verso una visione diversa dell’università italiana. L’abolizione dell’assegno di ricerca, sostituito da un contratto di ricerca con una migliore retribuzione e tutele più robuste, e il riordino delle figure di RTDa e RTDb in un’unica figura di ricercatore in tenure track (RTT) con prospettive di stabilizzazione, avevano la possibilità di limitare la precarizzazione e, con i dovuti finanziamenti, invertire la tendenza.
Tuttavia, la riforma è finora rimasta nei fatti inattuata, e le criticità nella sua attuazione sono significative: senza un aumento dei fondi dedicati ai contratti di ricerca, che l’ADI ha calcolato in un fabbisogno di circa 250 milioni annui, corrispondenti a un onere maggiore di 165 milioni per le finanze pubbliche, al netto degli introiti a valere sull’IRPEF, l’abolizione dell’assegno comporterebbe l’espulsione di circa 6000 ricercatori e ricercatrici, pari al 40% delle posizioni attuali. Parte di queste posizioni verranno convogliate su forme di contratto ancora meno tutelate, come le borse di ricerca, mentre altre verranno completamente eliminate, portando all'espulsione di un’intera generazione di ricercatori e ricercatrici. Inoltre, all’abolizione delle posizioni RTDa dovrebbe corrispondere un aumento dei nuovi posti RTT, che l’ADI ha quantificato in un minimo di 1200 posizioni in due anni (con un costo totale per lo Stato di circa 360 milioni). Un ritorno alla realtà pre-riforma, come auspicato il 22
novembre dal ministro Bernini in nome di una presunta contrapposizione tra posizione stabile e libertà di ricerca, non è una soluzione praticabile, rappresentando una definitiva conferma dell’impianto della Legge Gelmini, che mira al precariato e alla creazione di pochi centri di eccellenza in un sistema universitario fortemente diseguale.
Il comma 3 art.101, infine prescrive un incremento del Fondo Integrativo Statale per le borse di studio pari a 250 milioni di euro, che a fronte dell’attuale ritorno della figura dell’idoneo non beneficiario, risulta gravemente insufficiente. In questa fase di crescita esponenziale del costo della vita, che di fatto ricade principalmente sulle soggettività economicamente e socialmente marginalizzate, il minimo indispensabile per garantire il diritto allo studio sarebbe prevedere un investimento di almeno ulteriori 400 milioni di euro esclusivamente per finanziare il sistema di borse di studio. La presenza di 2500 idonei non beneficiari in Veneto, il ricorrere a fondi regionali in misura quanto mai cospicua (al limite del 40% previsto) di numerose Regioni sono solo alcuni degli avvertimenti che dovrebbero mettere in allarme rispetto allo stato in cui versa il diritto allo studio universitario: sarebbe ulteriormente opportuno prevedere un innalzamento della fascia di reddito che garantisce l’idoneità alla borsa di studio, per includere tutti quegli studenti che appartengono a nuclei familiari con redditi colpiti dalla crisi finanziaria, che in questa fase di crisi stanno vedendo la propria stabilità economica tracollare. Opportuno, per rendere il d.s.u. un diritto universale nel nostro Paese, sarebbe prevedere il superamento dei criteri di merito per il mantenimento della stessa borsa di studio, verso una reale misura di sostegno al reddito e consentire una prosecuzione libera del proprio percorso di formazione ed accademico.
Mancanti sono, inoltre, misure per il diritto all’abitare, oggi in grave emergenza a causa dell'inadeguatezza delle nostre città a arrivi massicci di studenti e studentesse: si dovrebbe prevedere un fondo fisso di almeno 30 milioni di euro destinati a supportare gli affitti sul libero mercato di quegli studenti e studentesse, ricercatori e ricercatrici che non hanno accesso ad alloggi per il d.s.u. Chiaramente questo andrebbe affiancato ad un incremento di almeno 300 milioni al bando 338 per la costruzione di alloggi e residenze pubbliche per gli studenti, per sopperire alla carenza di alloggi destinati alla residenzialità studentesca, che è ulteriore causa oltre alla semplice speculazione dell’aumento dei costi di cui sopra.
Complessivamente, dunque, questa legge di bilancio, i cui saldi sono certamente in buona parte impegnati per far fronte alla congiunturale crisi energetica, dimostra la grave assenza di politiche per l’istruzione terziaria che questo governo ha intenzione di mettere in campo. L’idea di università che emerge è fortemente aziendalizzata ed escludente, un’università la cui priorità è la produttività e la generazione di profitto e precariato piuttosto che la libera elaborazione e diffusione di saperi a chiunque voglia intraprendere gli studi, a prescindere dalle proprie condizioni economiche.
Riteniamo, pertanto, necessario ed indispensabile assumere una prospettiva di lungo periodo, contribuendo a invertire la tendenza al definanziamento del comparto università e ricerca, contribuendo così a gettare le fondamenta di un diverso modello di sviluppo economico, sociale e culturale per il Paese tutto, che veda nella conoscenza la sua cifra fondamentale.
Link Coordinamento Universitario
ADI, Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia
Pubblicato Mer, 14/12/2022 - 21:05
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