Riforma Università | Il viceministro Fioramonti ha indicato in una recente intervista alcune linee guida per la Riforma dell’Università e del postdoc che vorrebbe attuare il Movimento 5 Stelle. L’ADI riscontra alcuni elementi positivi, ma anche gravi criticità, a partire proprio dall’insufficienza delle risorse finanziarie che si vogliono investire nel mondo accademico.
Con il fiorire della primavera sembrano affiorare finalmente le volontà politiche di affrontare la drammatica questione del precariato nell’università. In un’intervista pubblicata lunedì 18 marzo il viceministro Fioramonti ha indicato alcune delle linee guida sulla base delle quali il Movimento 5 Stelle vorrebbe intervenire.
Il riconoscimento dell’urgenza di provvedere a una riforma del pre-ruolo è tardivo ma apprezzabile. Come l’ADI denuncia da tempo, l’ingresso in ruolo come ricercatore e poi docente universitario è preceduto da una troppo lunga stagione di precariato: gli anni potenzialmente più produttivi dei ricercatori italiani vengono sostenuti con assegni di ricerca, contratti precari a breve durata e generalizzate situazioni di decennale sfruttamento, senza la certezza di un percorso caratterizzato da tenure-track (procedura diffusa nelle università del mondo per cui un contratto a tempo determinato è destinato direttamente alla conversione a tempo indeterminato dopo la verifica di requisiti ad hoc).
Nel 2018, insieme a FLC-CGIL, abbiamo dato vita alla campagna “Ricercatori Determinati”, caratterizzata da proposte concrete per dare dignità, tutele e certezze al lavoro dei ricercatori italiani. La proposta del Movimento 5 Stelle accoglie alcune delle istanze di questa piattaforma, prevedendo a tutti gli effetti che il post-doc sia inquadrato come contratto di lavoro subordinato, eliminando le forme di lavoro meno tutelato (assegni di ricerca, co.co.co, borse) che da anni forniscono l’espediente per risparmiare risorse ricattando i ricercatori. Non si può peraltro identificare a sua volta il post-doc come “ricercatore in formazione”: chi ha conseguito un Dottorato è un membro riconosciuto della comunità scientifica, un lavoratore della ricerca a pieno titolo, e va inquadrato come tale.
Anche alla luce di questi possibili passi avanti, l’estensione dello status di lavoro subordinato al dottorato di ricerca è il grande assente in questa proposta. L’ADI, sulla base della Carta europea dei ricercatori, da sempre si batte affinché il dottorando sia considerato come “ricercatore in formazione” riconoscendo la causa mista della sua posizione lavorativa. Nella proposta attuale non è previsto il riconoscimento di questo status, e ciò ne costituisce una gravissima debolezza.
Le nostre proposte al riguardo sono contenute nella Proposta per la riforma del Dottorato di Ricerca in Italia (al punto II), comprensiva della stima degli oneri per lo Stato, grandemente inferiori ai vantaggi che deriverebbero dall’applicazione dei provvedimenti da noi richiesti.
Rimanendo su questioni contrattuali, è apprezzabile la specifica di un minimo salariale, peraltro maggiore rispetto a quello oggi riconosciuto agli assegni di ricerca. Tuttavia, ciò andrebbe integrato con opportuni meccanismi di rivalutazione, necessari per evitare la progressiva svalutazione della cifra specificata.
L'introduzione di forme contrattuali con maggiori garanzie, l'istituzione di un portale unico dei concorsi dell'Università e della Ricerca e la possibile revisione del sistema di valutazione sembrano andare verso un sistema più trasparente. Sarebbe però inaccettabile se ciò si traducesse in un automatismo della selezione: è impensabile e dannoso selezionare ricercatori e docenti con modi diversi dal giudizio tra pari o “peer review”, ossia la valutazione tipicamente adottato nel mondo scientifico che assoggetta un lavoro al giudizio degli esperti dello stesso settore scientifico.
Fatte queste prime valutazioni, è però impossibile non notare alcune gravi criticità.
Innanzitutto, va chiarita l’accessibilità del nuovo post-doc, specificando norme transitorie per le diverse figure attualmente precarie. Ciò è fondamentale per evitare la possibilità che si rinnovi lo sfruttamento di una generazione di ricercatori già vessata dall’attuale situazione, e che qualsiasi riforma si traduca nella “rottamazione” dei precari di età più elevata che in questi anni di disinvestimento hanno garantito che le università potessero svolgere i propri compiti. Tuttavia è anche necessario permettere l’accesso ai nuovi contratti a coloro che hanno accumulato pochi anni di post-doc, garantendo una transizione il più possibile fluida e ordinata al nuovo sistema.
Inoltre, è inaccettabile pensare, come sembra emergere dall’intervista del viceministro Fioramonti, e come sarebbe confermato se la riforma non includesse le necessarie garanzie, che ci possano essere automatismi di fatto che discriminino i ricercatori sulla base dell’età.
Suscita enormi perplessità anche l’idea di vincolare il numero di posizioni bandite annualmente al numero di dottorati rilasciato. Infatti, è noto che il numero di posti di dottorato è diminuito quasi costantemente dal 2010 (vedi la VII indagine ADI sul dottorato e il postdoc) e si attesta negli ultimi anni intorno alle 8000 - 9000 unità. Vincolando il reclutamento di RTDa al 10% dei dottori di ricerca, la situazione non cambierebbe rispetto al contesto attuale, caratterizzato da circa 320 RTDb e 950 RTDa reclutati ogni anno. La situazione potrebbe addirittura peggiorare in caso di riduzione dei finanziamenti strutturali.
La più grande criticità della proposta in esame è il rischio che si traduca in una massiccia espulsione degli attuali precari dal sistema accademico: come mostrato nella VII indagine sul post-doc di ADI circa il 90% degli assegnisti saranno espulsi dal sistema nel medio - lungo periodo. Questi sono i disastrosi risultati del definanziamento e blocco del turnover attuato dalla Legge 240/2010, per ovviare ai quali servirebbe urgentemente uno stanziamento adeguato a riportare l’Italia in linea con gli altri grandi paesi europei.
Con l'incremento previsto nella proposta del Movimento 5 Stelle (7,500,000 di euro del FFO per le università e 1,500,000 del FOE per gli enti di ricerca) è come provare a spegnere un incendio con un bicchiere d’acqua: questi fondi sono sufficienti a stento a sostenere poche centinaia di contratti. Servono invece investimenti consistenti, intorno al miliardo e mezzo di euro, e lo sblocco totale del turnover per evitare di creare migliaia di esodati del precariato universitario, far crescere il sistema universitario italiano e metterlo in condizione di contribuire allo sviluppo economico e sociale del Paese.
In conclusione, nell’affrontare una materia così delicata è necessario che il governo e le parti politiche si confrontino con le organizzazioni di rappresentanza e tengano nella dovuta considerazione le analisi e le proposte che emergono dalle mobilitazioni di chi studia e lavora nelle università italiane.
Pubblicato Lun, 25/03/2019 - 13:17
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